Il libro – Super Dog Black

SUPER DOG BLACK

 

Chi è vicino ai sessant’anni non può aver dimenticato Rin Tin Tin. I bambini degli anni ottanta ne avranno sentito parlare dai genitori o dai nonni e alcuni lo avranno anche visto in tivù. Era un magnifico cane pastore tedesco protagonista della fortunata serie di telefilm “Le avventure di Rin Tin Tin” arrivata in Italia dagli Stati Uniti sull’unico canale RAI della seconda metà degli anni cinquanta. Il bel cane lupo, insieme a Rusty, il suo padroncino di circa dodici anni, viveva al seguito di una guarnigione di soldati nordisti in un fortino del selvaggio West. Sotto il comando del Tenente Rip Masters, con Rusty e con il Sergente O’Hara Rin Tin Tin era l’eroe di tutte le avventure della guarnigione, ora alle prese con i pellerossa ribelli, ora sulle orme di pericolosi cow boys fuorilegge che assaltavano banche e diligenze e terrorizzavano i clienti dei saloon. Naturalmente i nordisti erano i buoni, mentre ai pellerossa toccava spesso la parte dei cattivi e quando tutto sembrava volgere al peggio e il male era sul punto di trionfare ecco il segnale della riscossa, il grido di Rusty “Yuhuuu Rin Tin Tin!!!”. Con un salto di cinque metri arrivava Rin Tin Tin e azzannava il braccio armato dell’apache traditore o del bandito bianco facendo volare via dalle loro mani il tomahawk, l’arco con le frecce, la pistola o il fucile. Un’altra rapida mossa, un ringhio feroce e due forti zampe premevano inesorabili sul torace del malcapitato ormai arreso spalle a terra prima che arrivasse qualcuno dei nostri a mettergli le manette.

Va da sé che ogni ragazzino sognava di possedere un pastore tedesco per continuare a vivere con lui lontano dal video le avventure del suo telefilm preferito. Provai in tutti i modi a convincere i miei. Promisi che avrei studiato di più, che sarei stato ubbidiente, che non avrei fatto dispetti a mio fratello, che non mi sarei rovinato le scarpe della festa in strada giocando a pallone e che sarei andato a letto subito dopo Carosello, che terminava alle nove di sera e di norma segnava la fine della giornata di ogni bambino. Fu tutto inutile. Mia madre era irremovibile e desiderai il mio “Rin Tin Tin” fino alle soglie del liceo classico.

 

Passò il liceo, passarono vent’anni. L’ultimo “Rin Tin Tin” della televisione correva ormai da chissà quanto nelle praterie sconfinate del cielo, lontano dal successo che lo aveva portato nelle case e nei cuori dei bambini di mezzo mondo.

Prima di accendere il monitor della sala riunioni e di far scivolare la videocassetta dentro un enorme video registratore Olimpio mi fece leggere la sinopsi di “Super Dog Black”. “BLACK è un cane lupo maschio della Sezione Speciale Investigativa della Polizia Metropolitana di Tokyo. YOKO, una poliziotta della stessa sezione, si prende cura con amore di BLACK aiutata da un amico poliziotto di nome Oshima. Yoko e Oshima litigano spesso per i modi differenti di investigazione e soprattutto per l’impiego tattico-strategico di Black nelle varie operazioni. Black ha superato con il massimo profitto ogni durissimo allenamento ed esercizio cui è stato sottoposto alla scuola d’addestramento dei Cani Poliziotti, specializzandosi nella caccia ad assassini, rapinatori, stupratori, trafficanti di droga, ecc… Per le sue doti speciali, per il suo fiuto e per la sua intelligenza ed intuito, Black è veramente un SUPER-DOG”. Sul foglio della sinopsi c’era una nota scritta a penna da Anselmo Natalicchio: *consegna nastro alla “president” (avv. Cortese) entro il 10/6/82. P.S. eseguire anche versione strumentale ritmica e vivace della sigla, da inserire nella colonna.

Non si trattava del vecchio West né di storie con indiani e cowboys. Il protagonista sembrava il gemello in nero dell’indimenticabile “Rin Tin Tin” e al posto di Rusty e del Sergente O’Hara c’erano Yoko e Oshima. Mentre le immagini scorrevano e prendevo i miei velocissimi appunti mi sembrava di viaggiare sulla macchina del tempo. Certo lo scenario era cambiato, i grattacieli e le caotiche strade metropolitane avevano sostituito ranch, pascoli verdeggianti e aridi deserti, le automobili e le motociclette avevano preso il posto di cavalli e diligenze, ma il cuore della storia rimaneva lo stesso. Con un salto di cinque metri arrivava Rin Tin Tin, ovvero Super Dog Black, e metteva fuori combattimento il delinquente facendogli volar via dalle mani il coltello o la pistola. Un’altra rapida mossa, un ringhio feroce e le sue zampe inchiodavano il cattivo. “Hai capito ‘sti giapponesi?” fece Olimpio “gli americani hanno vinto la guerra, ma loro gli stanno copiando tutto; adesso anche i telefilm!”.

 

Dovevo scrivere la sigla di un telefilm, non di un cartone animato. Esattamente un anno prima avevo vinto inutilmente la gara per “Il Fantastico Ranch del Picchio Giallo”, un serial bizzarro interpretato da attori, disegni animati e animali. Alla fine il disco non era stato pubblicato per il disinteresse del pubblico e ricordando quell’esperienza ero preoccupato. Ma di cosa? Del rischio di lavorare ancora una volta a vuoto? E questo non faceva forse parte del gioco, cioè della vita che avevo scelto quando nella stessa sala riunioni in cui mi trovavo Mario Cantini, ascoltati con pazienza i miei dieci malinconici brani da cantautore, mi aveva offerto di fare il paroliere? E io, felice di respirare e vivere qualche ora al giorno nella stessa casa discografica di Francesco De Gregori, mio mito e modello inarrivabile, non avevo forse accettato di scrivere per chiunque? Dunque di cosa avevo paura? Di qualche battuta d’arresto in una carriera decollata dopo una dura gavetta di due anni e mezzo nei quali mi avevano commissionato quasi trecento testi, mi avevano riempito di complimenti e pacche sulle spalle ma mai niente di mio era stato inciso su quel coso nero e tondo con il buco in mezzo? Oppure stavo lasciando che il mio desiderio di fare il cantautore si esaurisse mentre un semestre dopo l’altro aumentavano i soldi guadagnati con le sigle e con le altre canzoni scritte per tutti tranne me? Avevo visto la videocassetta di Super Dog Black e Olimpio si aspettava che entro quarantotto ore tornassi con il testo. Il disco sarebbe uscito? Sarebbe stato un successo? Super Dog poteva diventare celebre come Rin Tin Tin… Questi e altri pensieri mi giravano per la mente mescolandosi alle immagini di Black con la coda in aria, tenuto al guinzaglio da Yoko o lanciato all’inseguimento di un corriere della droga, le quattro zampe a un metro dall’asfalto tra semafori, vetrine, persone, automobili, sirene e pericoli di ogni tipo.

“Andiamo in studio mercoledì; il sedici. E’ il Telecinesound, lo conosci? Sta dietro piazzale Clodio. Cominciamo con la base di Sampei e poi passiamo a Super Dog. Dougie e Mike sono convinti che verrà un bel lavoro, per tutte e due le sigle. Ne ho già parlato con Cantini; le facciamo uscire sullo stesso 45 giri e il nome del gruppo sarà Rocking Horse, anche per Super Dog Black. Un bel colpo, anche per te, no?”. “Sì, un bel colpo” pensai “sarà quello che mi prende se continuo a dormire tre ore per notte e a fumare e bere caffè finché non ho finito, finché non mi sembra di aver dato il meglio in ogni riga e in ogni parola”. Invece risposi “Ho capito, niente RCA. Ci vediamo mercoledì pomeriggio al Telecinesound”. Salii sulla Dyane arancione e mi infilai nel traffico del Grande Raccordo Anulare verso via Proba Petronia 82, il bel condominio immerso nel verde dove abitavo. “Super Dog Black, lupo grande fiuto… Super Dog, con la coda qui e là…”. Guidavo e affioravano i primi versi, mentre la musicassetta girava nel mangianastri portatile appoggiato sul sedile del passeggero.

L’autoradio non ce l’avevo ancora, non l’avevo voluta per saturazione da musica. Dalle otto di mattina alle cinque del pomeriggio disegnavo ascoltando le canzoni trasmesse dalla radio che tenevo ininterrottamente accesa. A casa suonavo e registravo le mie composizioni, scrivevo testi su musiche di altri e nelle ore di relax consumavo il giradischi con i Pink Floyd, i Beatles e decine di cantautori italiani e stranieri. Perciò la macchina era per me un territorio protetto per far riposare i timpani, a parte i clacson e i motori di ogni cilindrata. Solo la mente continuava a vagare: da una sigla su cui stavo lavorando a un’altra appena arrivata in televisione, da un progetto con un nuovo artista all’ennesima melodia di mia invenzione con cui speravo di suscitare l’interesse di qualche discografico. Quel lunedì 14 giugno 1982 ero tuttavia uscito di casa con l’equipaggiamento per i casi d’emergenza, un mangianastri a batterie che avevo nascosto sotto il sedile dell’auto prima di entrare in ufficio. Olimpio mi aveva anticipato che avrei avuto pochissimo tempo. Perciò durante il tragitto di ritorno dalla RCA avrei riascoltato il provino cantandoci sopra, scegliendo i punti chiave della strofa o del ritornello dove piazzare il titolo e appuntandomi qualche frase venuta di getto tra un rallentamento e un semaforo rosso.

Tutto può aiutare, anche una due cilindri con novantamila chilometri all’attivo che ormai riusciva a raggiungere i cento all’ora solo in discesa e all’occorrenza poteva diventare lo studio mobile dove far nascere le prime parole di una canzone. La fantasia non ha limiti, la creatività non conosce confini e può esprimersi anche tra le pareti maiolicate di un bagno pubblico. Un big degli anni sessanta, da poco scomparso, in un momento d’insolita confidenza mi raccontò di aver trovato il ritornello della sua hit più popolare un giorno d’estate in una toilette sull’autostrada. Stava guidando da qualche ora diretto a sud verso una cittadina dove la sera si sarebbe esibito in una festa di piazza. Le mani sul volante, canticchiava le prime note di un motivo che gli era venuto in mente qualche chilometro prima ma che non riusciva a sviluppare, bloccandosi sempre allo stesso punto. Dovendo andare in bagno, al primo cartello che segnalava la presenza di un autogrill portò la macchina nella piazzola di parcheggio. Scese, chiuse la portiera e alla vista dell’insegna con la sagoma dell’omino che cercava ormai con impellente urgenza riprese a canticchiare il suo abbozzo di canzone. Seguì le indicazioni, attraversò un lungo corridoio bianco, fece due rampe di scale, aprì una seconda porta con la sagoma dell’omino e realizzò due desideri in un colpo solo. Il primo si concretizzò in un intenso piacere liberatorio lungo un paio di minuti. Il secondo in quegli stessi centoventi secondi prese la forma musicale di una delle più belle melodie dei mitici anni delle Olimpiadi di Roma. Insomma, quando scappa… scappa. E vale anche per il genio!

 

Per Super Dog Black avrei potuto scrivere un supertesto. Le premesse c’erano, soprattutto quelle emotive. Per esempio i ricordi legati a Rin Tin Tin che mi aveva accompagnato nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Scrivere quella sigla sarebbe stato un po’ come far rivivere l’eroe dei miei pomeriggi di vent’anni prima davanti alla tivù. Avrei rievocato sensazioni, immagini, sogni e desideri in tanti coetanei che nel frattempo erano diventati papà e che seduti in poltrona accanto ai figli avrebbero seguito le imprese del Rin Tin Tin degli anni ottanta. Ero anche su di giri per l’opportunità di avere due sigle sullo stesso disco: sarebbe bastato il successo di una sola per raddoppiare i guadagni. E poi dopo “Lalabel”, incisa a gennaio del 1982 da Dougie e compagni ma affidata per il testo a Lorenzo Meinardi, sentivo l’orgoglio e la soddisfazione di essere stato pienamente reintegrato nel team dei Rocking Horse.

Ma tante emozioni insieme possono causare l’effetto opposto. In me provocarono una perdita di lucidità, di quel tanto di fredda obiettività che sa distinguere un’immagine nuova e felice da una giusta ma scontata. Scrivendo, si può essere tratti in inganno da parole che suonano bene e si sposano perfettamente con la musica senza accorgersi che raccontano molto meno di quello che si voleva dire. In quel caso il testo trasmette solo il significato letterale e nulla più. Non riesce a prendere per mano chi lo ascolta e a trascinarlo oltre le prime sensazioni di quei versi. Non accende la fantasia che da sola evocherà l’aspetto, gli abiti e i gesti dei personaggi, i colori delle case, delle automobili, delle foglie degli alberi o del cielo. Scrissi un testo dignitoso ma non bello.

Due giorni dopo al Telecinesound Dougie, Mike, Dave, Mick e Marvin avevano quasi completato la base di Sampei. Stava suonando Mike su una tastiera Yamaha, sicuro e professionale con il volto impenetrabile mentre i suoni straripavano pieni di vitalità e allegria. In regìa eravamo tutti affascinati e coinvolti dalla carica che esplodeva a raffiche dalle casse. Quasi subito Olimpio mi distolse dallo spettacolo e mi riportò alla realtà chiedendomi una modifica immediata del testo e ricordandomi che aspettava quello nuovo sul super cane poliziotto. Superai lo scoglio Sampei con più di una difficoltà, prima tra tutte l’incapacità di concentrarmi alla presenza di altre persone, poi aprii la cartellina rigida che ancora conservo a ricordo di quegli anni, ne estrassi il dattiloscritto di Super Dog Black e glielo consegnai. Lui leggeva e io, che mi sentivo sotto esame, cercavo di alleggerire la tensione scorrendo con gli occhi il collage di foto di artisti incollato sul frontespizio. Avevo voluto personalizzare la cartellina dei testi rendendo esplicite alcune mie preferenze in fatto di musica. Mick Jagger, Rod Stewart, John Lennon, Francesco De Gregori, Elvis Presley, Paul McCartney, Frank Zappa, Lucio Dalla, Franco Battiato e Ray Charles parevano ricambiare il mio sguardo, ma con ironia. In particolare Lucio Dalla e Franco Battiato avevano un’aria perplessa, quasi che si interrogassero stupiti sul significato dei miei timori. “Si tratta della sigla di un telefilm giapponese, non di un canto della Divina Commedia di Dante Alighieri! Di che ti preoccupi?”, questo mi avrebbe sussurrato sorridendo Jimmy Tamborrelli se fosse stato lì.

Il volume della musica di Mike ci costrinse a cercare un angolo più appartato e lo trovammo fuori dello studio su un divano della sala d’attesa. Olimpio sottolineò alcune righe delle strofe e tre versi su cinque del ritornello. Erano i punti che non gli piacevano. A casa avrei dovuto spremermi un po’ di più, la sera stessa per l’indomani.

Ciò che mi resta del lavoro di quei giorni è una fotocopia del testo con molte correzioni a matita e a penna e uno scarabocchio dello stesso Olimpio. Confrontandola con il testo definitivo inciso nel disco ho trovato più di una differenza. I rifacimenti della sera non erano bastati e le modifiche conclusive erano state apportate da me e da Olimpio tra le pareti del Telecinesound qualche minuto prima che Dougie iniziasse a cantare. E quella non fu l’unica volta in cui Olimpio senza alcun tornaconto mi tolse dai guai mettendosi a fare il paroliere, inventando all’impronta ciò che non ero riuscito a scrivere in ore di inutili avvitamenti. Altri produttori per molto meno non si sarebbero fatti scrupolo di pretendere la classica contropartita: cofirmare il brano e mettersi in tasca il cinquanta per cento dei guadagni.

 

Tornai nello studio di via Muggia anche l’ultimo giorno di lavorazione per la curiosità di seguire i missaggi e il piacere di ascoltare il prodotto finito. Per chi partecipa alla realizzazione di un disco il missaggio è forse la fase più delicata. A volte è più appassionante e creativa di alcuni momenti della registrazione. Di solito si è in pochi davanti al banco: il tecnico del suono, il responsabile della produzione e l’artista. Ogni tanto capita che si affacci qualcuno della squadra, che resta dieci minuti o mezzora, ascolta, fa qualche domanda e poi se ne va.

Il suono di ogni strumento viene analizzato, compresso, asciugato, esaltato, reso più grave o più acuto, più presente o distante, arricchito o privato di effetti, echi e riverberi secondo i casi. Lo stesso procedimento si applica alle voci dei solisti e del coro e questo significa riascoltare i tre o quattro minuti o anche pochi secondi dello stesso brano per decine di volte apportando a ogni passaggio del nastro variazioni minime o significative. Ciò che per gli addetti ai lavori rappresenta l’occasione decisiva per rifinire e migliorare la qualità di una registrazione verrebbe vissuto da un neofita come una ripetizione noiosa e snervante. Tra i due estremi io ero una via di mezzo. Non avevo la preparazione tecnica per capire tutte le diavolerie inventate dal fonico e da Olimpio con l’aiuto di Dougie e tuttavia avevo l’orecchio abbastanza allenato per apprezzare i risultati che via via scaturivano da ogni movimento delle manopole, dei cursori e dei tasti del mixer.

Non ricordo a che ora uscii dal Telecinesound, se fossi esausto e felice, se soffrii il caldo per la mancanza dell’aria condizionata e se avevo ancora sigarette dopo averne fumate e schiacciate nel posacenere un numero sicuramente superiore alla mia media giornaliera. Quasi stentavo a rimanere in equilibrio mentre camminavo in direzione del parcheggio con i polmoni pieni di fumo, la mente e i muscoli ancora elettrici per le vibrazioni che li avevano attraversati a ondate il pomeriggio e la sera senza interruzioni. Mike aveva giganteggiato su tutti. Mai come allora la sequenza vertiginosa dei suoi accordi aveva impresso carattere e ritmo a tutto un brano dei Rocking Horse, dall’introduzione alle battute finali. Sostenuto dal basso di Mick Brill e della batteria di Marvin Johnson, Mike aveva costruito un funky rock originalissimo e senza un attimo di respiro, nemmeno negli incisi dove la breve pausa romantica era il preludio di una melodia che tornava subito incalzante. Ogni nota rimandava l’immagine di Super Dog Black in corsa da un marciapiede all’altro, implacabile, in volo sopra il tetto di un’automobile, lanciato strada per strada alla cattura di qualcuno che non avrebbe trovato scampo. Un po’ in ombra, sacrificata dall’arrangiamento di Mike, la chitarra di Dave Sumner. Fu la prima sigla in cui i suoi memorabili riff non trovarono lo spazio per esprimersi.

Alla pagina di lunedì 21 giugno 1982 l’agenda di Olimpio Petrossi testimonia che i tempi di consegna dei nastri di Sampei e Super Dog Black, previsti inizialmente per il 10 del mese e poi differiti al 21, slittarono ancora. Quello stesso lunedì Olimpio avrebbe dovuto cominciare la registrazione di altre due sigle, “Arrivano le spose” e “Il Mago Pancione”, ma anche questi impegni furono posticipati per consentire il missaggio dei due brani dei Rocking Horse. Da tale rimescolamento di date è facile dedurre come nell’estate di quell’anno in RCA l’attività sulle sigle fosse particolarmente febbrile. La richiesta che arrivava dalle case di produzione era superiore alle capacità dei gruppi di lavoro, perciò si crearono per tutti gli interessati – produttori, editori, autori e cantanti – opportunità insperate fino ad allora. Io stesso ero stato felicemente coinvolto in un episodio che spiega come in più di un caso per fare fronte agli obblighi contrattuali fu soppressa la pratica dei concorsi che richiedeva tempi più lunghi. Mi trovavo puntuale come sempre sulla porta dell’ufficio di Olimpio, a cui dovevo consegnare il testo di Sampei. Una delle sedie degli ospiti era occupata dal produttore Flavio Carraresi. Carraresi diceva che così su due piedi non avrebbe saputo a chi rivolgersi per il testo del “Mago Pancione Etccì” e Olimpio, che si era accorto della mia presenza, alzò un braccio in direzione della porta. “Hai bisogno di un paroliere? Eccolo! E’ Lucio Macchiarella. Vi conoscete?”. Ci presentò e io mi assicurai quel testo. Era l’ennesima conferma a un mio convincimento sui requisiti per avere successo. Intanto occorre essere bravi, cioè competenti nel proprio mestiere; poi bisogna avere costanza, senza darsi mai per vinti di fronte alle avversità; e infine ci vuole anche una gran fortuna. Per esempio quella di trovarsi al posto giusto nel momento giusto.

 

Il disco con Sampei e Super Dog Black uscì a ottobre e la sigla del cane lupo nero ebbe un destino contraddittorio. Fortunato per un verso per l’abbinamento a Sampei, che divenuto uno dei cartoni più seguiti ottenne subito un buon risultato di vendite. Sfavorevole per l’altro perché la serie che avrebbe potuto ripetere gli exploit di Rin Tin Tin raccolse consensi piuttosto tiepidi. Forse l’ambientazione nella metropoli giapponese e gli occhi a mandorla degli attori non favorirono l’immedesimazione dei giovanissimi con i personaggi. Nel 1994 la televisione austriaca esportò in Italia “Il commissario Rex” e un altro cane da pastore tedesco, dopo Rin Tin Tin, divenne il beniamino di tutti.